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Qualche decennio fa, con l’avvento della Rivoluzione verde, che portò con sé un modello agricolo monocolturale e un’agronomia basata sulla chimica di sintesi e sul lavoro meccanizzato, si iniziò a pensare all’agricoltura familiare come a qualcosa di inadeguato alle esigenze demografiche della contemporaneità, che vedeva una popolazione in costante aumento a fronte di una superficie coltivabile che non poteva estendersi a danno delle aree urbane e industriali che intanto si propagavano. Ci sono voluti decenni di resistenza economica, politica, educativa, ambientale, intellettuale e produttiva, a tutti i livelli, per arrivare alla proclamazione di oggi.

Grappoli d'uva

La differenza tra l’agricoltura familiare e quella di impostazione industriale non sta solo nelle dimensioni, che sono semmai una conseguenza della filosofia che le guida. L’agricoltura industriale è un business; in alcune zone del mondo si usa il termine agribusiness. Punta al profitto, è eminentemente orientata al mercato. Produce merci da vendere. Il mercato, quello che si nomina al singolare, quello delle borse merci, della grande distribuzione, quello delle export, quello in cui il cibo si chiama “derrata”: per quel mercato bisogna produrre tanto, in modo uniforme e sganciandosi dai tempi della natura, aiutandosi con input energetici e chimici. Bisogna far lavorare la terra con ritmi forzati. Quando parliamo degli animali allevati negli allevamenti intensivi, diciamo di come sono costretti in condizioni inaccettabili, che negano loro libertà, salute e spazio. Provate a pensare alla terra, e alla Terra, come un grande, delicato, complesso animale. L’agricoltura industriale le strappa via moltissime delle specie selvatiche che lei ospita, la inonda di chimica, intossica le sue acque, la trafigge con arature profonde, ne spinge i ritmi con prodotti di sintesi… e noi mangiamo il risultato di tutto questo. Ma l’importante, per l’agribusiness, non è che noi lo mangiamo. È che noi lo acquistiamo. L’agricoltura familiare produce cibo. I suoi obiettivi sono le persone che lo mangeranno e anche la terra che, stagione dopo stagione, collabora con gli agricoltori. Produce cose da mangiare, non da vendere. L’importante è avere un raccolto, per questo diversifica il più possibile, cerca di inserirsi nei ritmi della natura, non di contrastarli. Semina patate, ma anche mais e fagioli, perché il clima che danneggerà uno di questi alimenti favorirà gli altri; semina ortaggi, ma anche fiori ed erbe aromatiche, perché gli insetti e i parassiti non li danneggino. Dietro all’agricoltura familiare non ci sono società di capitali, ma agricoltori, che saranno i primi a mangiare le loro produzioni, insieme alle loro famiglie. E ci saranno i mercati, al plurale, quelli di vicinanza, ma anche quelli alternativi, come i Gas, o le consegne via internet, o i negozi cooperativi. L’agricoltura familiare va celebrata perché produce l’80% del cibo che viene mangiato dalla popolazione della terra. Quello che viene mangiato, attenzione, non quello che viene commercializzato. Le persone non si sfamano grazie ai grafici dei fatturati, ma se hanno qualcosa nel piatto. L’agricoltura familiare va celebrata, favorita e sostenuta politicamente perché consente a iniziative come l’Arca del Gusto di Slow Food, che cataloga cibi a rischio di estinzione, di non diventare una lista di mesti ricordi, ma di restare una lista di possibili progetti (i Presìdi di Slow Food hanno origine proprio da quella lista).

Dall'Introduzione al "Salone del Gusto" ed. 2014
www.realtaste.it

Piante di Fico d'India

Biodiversità 
Padiglione Bahrain
EXPO 2015



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